«Mangiamo il passato perché il presente sia prospero, nella consapevolezza che siamo parte di una storia. Mangiamo la morte perché ritorni la vita».
Un’analisi che attraversa secoli di credenze popolari, fede e rituali. Di Angelo Cucco
“Chi ti purtaru i morti?” si chiede ai bambini a novembre. I morti portano doni? Perché proprio i morti? E che cosa portano? Quindi i morti ritornano?
Sì, “a volte ritornano”, avvertiva il titolo di un noto libro di Stephen King e, cambiando un po’ il paradigma e la lettura, possiamo applicare l’aforisma al culto dei morti in Sicilia.
Era proprio la convinzione del ritorno delle anime, della loro presenza e permanenza, che governava l’idea comune della morte ma anche della vita. I morti dovevano tornare perché la vita potesse continuare, sono loro, i non-in-vita ad essere garanti della continuità. Vedremo un po’ come e soprattutto perché diventano dispensatori di doni o rifondatori di percorsi sacri.
Cominciamo con il dire che i morti non si facevano presenti solo il 2 novembre, la cultura della morte coinvolgeva la ritualità annua e della vita, il pensiero alla morte era costante e spaventoso e, come tale, altamente ritualizzato, inoltre contatti con le anime dei defunti si cercavano per risposte, sogni, indizi, numeri del lotto ecc.
La data canonica del culto dei morti era quindi solo una punta d’iceberg.
Non cercheremo di essere esaustivi nel trattare l’argomento, poichè vasto e intrigato, ma prenderemo in considerazione alcuni elementi.
I morti possono tornare?
Moltissime culture sono concordi su un ritorno dei morti e sul presentificarsi dei trapassati. Tra i Wayuu, a esempio, sono i morti che, nei sogni o tramite segni, decidono i tempi dei riti funebri. Storie di fantasmi, anime più o meno spaventose, sono antiche quanto l’uomo e talmente radicate da essere presenti tanto nella cultura popolare che in quella letteraria
Non fa eccezione la nostra bella terra di Sicilia, in cui l’anima del trapassato va curata fin dalla fase liminare tra morte e vita: l’agonia (Ngunia, agunia in dialetto). Preghiere e giaculatorie alla Madonna (a Matri di l’angunia, a Matri du succursu) e ai Santi (S.Espedito, San Giuseppe, San Cristoforo) ci tramandano i metodi per liberare l’anima in maniera definitiva dal corpo (alle preghiere si accompagnavano alcuni riti come mettere una forbice sotto il cuscino del morente per recidere i legami).
È inoltre in questo momento della “vita” che si apre, secondo la tradizione, un contatto diretto con l’altro regno: i morti tornano sulla terra per prendere il familiare, l’amico, il parente morente. Spesso si sentono racconti di questo ritorno momentaneo commentate con “su vinniru a pigghiari!” “vitti a so nannu!” “chiamavi a so frati!”. Uno o più persone defunte e a volte entità divine, di cui il morente fa il nome o indica, sono reputati i garanti del trapasso. Un ritorno, dunque, che ha il sapore del ricongiungimento e della comunità che accoglie un nuovo membro. Un ritorno che tuttavia non è slegato dal ritorno dei morti di cui stiamo cercando di tracciare un profilo, ne fa parte e ne è base di spiegazione.
Prucissioni di muorti e culti
La stessa idea anime tra gli uomini è alla base delle processioni fantasma (prucissioni di muorti) che si racconta svolgersi in novembre. Tantissimi sono i paesi siciliani in cui è viva questa credenza e i dettagli del racconto scendono nei particolari: dall’ordine delle anime per tipo di morte o al ceto fino al percorso che tracciano durante il loro peregrinare. Esse attraversano i paesi per recarsi in luoghi particolari o per andare a celebrare messa. Processioni che, inavvertitamente, vengono viste da alcuni vivi, messe a cui i vivi non devono partecipare o rischiano di entrare in una comunità non loro. La processione dei morti è come se rifondasse la comunità dei vivi sacralizzandone gli spazi, occupandone i luoghi e svolgendo un’attività da non-morti, mantenendo tuttavia distinti i due gruppi.
Ma vi è differenza tra le anime già trapassate e l’anima dell’agonizzante o dell’appena morto: essa è ancora in uno status intermedio. Nel momento in cui la persona spirava, ci si preoccupava di aprire una finestra perché l’anima avesse possibilità di uscire e cercare la strada del Paradiso
In alcuni paesi la finestra non andava richiusa subito ma dopo tre giorni e lasciando una candela accesa, proprio perchè, come dicevamo, a volte ritornano. Secondo la tradizione, anime particolarmente pesanti (per i peccati) continuavano a vagare per sette anni sulla terra e le anime di donne probe o delle maghe erano intrappolate nei rospi (buffi) per espiare le proprie colpe o perché esseri magici (è a causa di questa credenza che i nostri contadini temevano di uccidere l’animale e quando non potevano farne a meno intercalavano l’atto con lo scongiuro “si si buffa ti pigghiai si si fimmina tinni vai!” e la appendevano per un piede senza versarne il sangue. Le leggende sulle rane e la magia sono tante e interessanti ma ci porterebbero troppo lontano dall’oggetto del\articolo).
Per motivi simili non si spazza la casa e non si butta l’immondizia nei giorni del lutto, un anima particolarmente debole potrebbe finire, per così dire, buttata.
Il fatto di non vederla e di non poterla sentire e la paura di poterne inficiare la vita eterna (ma anche di lasciarla per casa a gironzolare), rendeva ( e in molti casi rende) i parenti del defunto estremamente attenti alle pratiche e ai riti. Per non intrappolarla si doveva altresì evitare di mettere ori sul corpo del defunto e bisognava coprire gli specchi perchè non si incantasse di sè stessa o rimanesse prigioniera nell’immagine riflessa.
Finchè il corpo è in casa tuttavia, l’anima presenzia, questa convinzione spingeva e spinge ad affidare messaggi, lettere, oggetti per altri defunti (spesso riposti nella bara).
Il funerale è visto come l’ultima festa del defunto (e così ancora si sente chiamare ” e finivi a festa” “ci facemmu na bella festa”), l’ultima, precisiamo, in cui anima e corpo vengono festeggiate insieme. Dopo la tumulazione, il defunto entrava a far parte della schiera “di morti” o “di l’armi santi”. Per chi poteva permetterselo restava soltanto “u quatru” (dipinto o fotografia) del defunto
Il culto dei morti in Sicilia
E proprio questa immensa schiera era quella festeggiata e invocata durante l’anno con tridui, novene, ottonari, giaculatorie che inondavano la Sicilia e che a Palermo e Messina spingevano gli orbi a cantare le emozionanti orazioni, in onore ora della madre, ora del figlio, ora del fratello eccetera (i testi di queste orazioni spesso sono in prima persona: è lo stesso morto che chiede ai familiari di ricordarlo, pregare e di far celebrare messe).
All’interno della grande schiera dei defunti però, vi erano delle gerarchie precise, le anime più miracolose erano quelle dei decollati che a Palermo avevano gran culto presso l’omonima chiesa vicina al ponte di via Oreto (oggi parrocchia Maria SS. del Carmelo) e che ancora ne ricevono presso un cippo che in passato servì a raccogliere le teste di questi defunti. Le numerosissime storie sui decollati, sui loro miracolosi interventi e sulla loro potenza meriterebbe un post a parte. Segnaliamo qui che il culto “dell’Armi e corpi decollati” sconfinava in tutta la Sicilia e che questa morte traumatica e la separazione tra testa e resto del corpo li rendeva molto potenti, l’anima uscita in maniera traumatica dal corpo (secondo alcuni dal collo) diventava capace di divinare anche il futuro e compiere magie. A Palermo ancora è in uso il rito di “fari u scutu” o “ ascutari” per avere responsi seguendo un preciso rito.
Particolarissima considerazione godevano le mummie custodite nelle cripte. A Palermo la devozione si concentrava soprattutto “all’armi santi di cappuccini” a cui si recitavano novene e ci si recava a visitarli. Nelle chiese di paese (per esempio a Gangi, Castelbuono, Cefalù, Ciminna, Corleone ecc.) si visitavano le cripte in cui erano custoditi i resti dei sacerdoti defunti. Si credeva che questi morti potessero difendere i beni della chiesa in cui erano custoditi e che fossero potenti in virtù dell’ordine sacro ricevuto.
Gangi, chiesa Madre, l’intercessione di Maria (che dona il suo latte per la salvezza delle anime) e di San Michele in favore delle anime purganti
Sulle Madonie si curava il culto delle anime dei morti ammazzati e quelle dei pastori morti in montagna, sul luogo della morte si era soliti lanciare una pietra ogni volta che si passava (creando veri cumuletti) per “arrifriscari l’arma”, chi non lo faceva rischiava di vedersi apparire il defunto.
Il 2 novembre
Arriviamo adesso, dopo questa veloce carrellata, alla data del 2 Novembre. Essa era preceduta da una novena (a nuvena di morti) che si cantava o recitava in casa (Novene simili si recitavano anche in concomitanza degli anniversari di morte) ed era seguito dall’ottava e da “u misi i morti”. Nelle chiese si montavano gli apparati con bare fittizie e parati neri e ci si recava processionalmente ai cimiteri. Un uso antico e ormai desueto (prima dell’introduzione delle foto) era il trasporto, in pompa magna, del “quatru” del defunto al cimitero per il giorno di festa. Il “quatru” era una sorta di incarnazione del morto e riceveva onori speciali.
Era inoltre uso invocare i propri morti con le lamentazioni “cantate” e il grido, strappandosi i capelli e graffiandosi (cosi come si faceva durante il funerale). Frase tipica era “affacciati affacciati! parrami”. Le offerte di cera erano numerosissime e spesso accompagnate da libagioni e fiori: accanto alle tombe si mangia e si beve.
In questo periodo si preparavano particolari pani che venivano donati ai poveri in suffragio delle anime purganti ed erano detti “armuzzi” o “uasteddi di morti” o “pani di morti” (non a caso a Palermo si consuma la “muffuletta” condita).
Per alcuni giorni poveri e bambini percorrevano le strade questuando (pane o biscotti) presentandosi come “i morti”.
Perché i morti devono ritornare?
La loro apparizione è necessaria perché ritorni l’abbondanza. È come se il loro ritorno garantisca la prosperità (mentri sugnu na sta vita di guai cosi di morti mittitiminni assai!). Loro che stanno nel sottosuolo accudiranno i semi e spingeranno fuori il grano e le altre piante. Non a caso si cominciava a seminare il giorno dei morti e ai “vicari” di costoro (bambini e poveri) si offrivano doni.
Ed ecco che arriviamo ai doni che, in alcune località siciliane, si offrono ai bambini dicendo che li hanno portati i morti!
Ben si conosce il rito palermitano: la sera antecedente la festa si dice ai bambini di andare a dormire e non svegliarsi per evitare di vedere i morti. Chi ha fatto il cattivo avrà grattato i piedi con una grattugia! Anticamente si lasciava il fuoco acceso e si lasciava la tavola imbandita per la visita degli antenati. Gli adulti si impegnano poi a disporre giochini, dolciumi e semente da far ritrovare il giorno dopo ai piccoli (fuori da Palermo i morti lasciano i doni nelle scarpe o nascosti).
I bambini, inconsapevoli, sono da un lato i beneficiari dei doni dei morti ma dall’altro sono i vicari dei morti stessi a cui gli adulti offrono doni perché ritorni la prosperità. L’alterità dei bambini e la loro possibilità di essere vicari dei morti è una costante nella ritualità siciliana che, in questa occasione, si palesa. I bambini sono i più vicini al non-nato e non sono ancora adulti, sono la speranza del futuro ma anche, al tempo stesso, rischio.
I morti arrivano di notte, nel silenzio, portano doni specifici che dispongono nel caratteristico “ cannistru”: un cesto o un tavolo ricolmo di cibo. Tra essi tatù e catalani, anicini, reginelle, biscotti vari, caramelle e cioccolatini, frutta secca (fichi e datteri), “scacciu”, castagne (non a caso dette cruzziteddi!) ed immancabili quattro elementi: la melagrana, la frutta martorana, u pupu a cena e l’ossa i morti.
La valenza simbolica ultra-terrena della melagrana è segnalata fin dall’antichità: è il frutto che Ade offre a Persefone per trattenerla negli inferi.
La frutta di pasta reale, un tempo realizzata dalle monache della Martorana, altro non è che una dolcificazione del reale. Colori e forme prospettano un’abbondanza ancora molto lontana… il tempo della semina e dell’inverno è il tempo dell’attesa in cui si spera, si desidera, si ingrazia il futuro raccolto che, come detto, sono gli stessi morti a garantire.
U pupu a cena, figurino in zucchero, è quasi un’icona dei morti stessi. La sua ambigua figura è designata dal nome “pupu a cena” nel senso di pupo della cena o di protagonista della cena? È forse il pupo a essere il vero padrone del cannistru. Nuova figura dei Penati, il pupo è l’essere fatto di una materia insolita, duro eppure fragile, capace di sciogliersi completamente eppure solido nei suoi variopinti colori. È il padrone momentaneo di una festa. Simile per consumo ai biscotti di San Cosimo o ai pani antropomorfi. Le forme antiche dei pupi di zucchero erano: Cristo Risorto, Santi e Madonne, il paladino, la zita cu zitu, la ballerina (a pupa cu l’anchi torti), il sodato, il carretto, il gatto, il gallo ed altri animali. Oggi invece si aggiungono personaggi dei cartoni animati e dei fumetti. Tuttavia è ancora il pupo di zucchero il re di un mondo dolcificato in cui, oltre la frutta, anche le ossa dei morti diventano dolci! Con significato simile noi ingeriamo, dolcificate e simboliche, le ossa degli avi. Mangiamo il passato perché il presente sia prospero, nella consapevolezza che siamo parte di una storia. Mangiamo la morte perché ritorni la vita. Oggi questi dolci sono costituiti da quadratini di due colori separati (la separazione avviene naturalmente durante la cottura) e che secondo la tradizione simboleggiano la carne (la parte color miele) e le ossa (la parte bianca), un tempo invece (come è possibile ammirare al Pitrè) raffiguravano ossa o scheletri. Un tempo dolce quindi, racchiuso nel perimetro di un cannistru donato ai bambini.
Sarà un caso o un’ulteriore conferma la leggenda, diffusa in tutta la Sicilia, che i morti siano custodi di una “truvatura”(ricchissimo tesoro nascosto) che è possibile rinvenire soltanto in vovembre?
Chi ti purtaru li morti?
u pupu cu l’occhi torti (a pupa cu l’anchi torti)
u attu chi sunava
u surci chi abballava
Veni la zita ca vesti di sita
la sita si vagna alla faccia di to\\\’ nanna
to nanna muriu e chiddu chi voli Diu.
veni so cugnata
cu a vesti ricamata
veni u baruni
cu i causi a pinnuluni
veni u tavirnaru
cu na buttigghia na la manu
titituppiti e lariula
pisci fritti e baccala
Ph. Angelo Cucco