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U fistinu è pur sempre Fistinu

Una festa istituita in seguito ad un miracolo e \\\”per grazia ricevuta\\\”, punto focale dell\\\’anno cerimoniale palermitano.   Angelo Cucco ci racconta questo momento di aggregazione e riconoscimento sociale e civico.


Apposta na stu munnu fu mannata pi essiri di Palermu l\\\’Avvucata!
così cantavano gli Orbi durante \\\”u triunfu di Santa Rusulia\\\” rimarcando essenzialmente il legame speciale che lega Palermo alla sua Santa. Dopo averne eloggiato la purezza (gigghiu fusti addrivatu all\\\’acqui puri), la discendenza regale (la discinnenza tua fu priziusa di Carlu Magnu re e imperaturi) e prima di raccontarne le gesta, il poeta si è sentito in dovere di precisare che la missione stessa affidata da Dio a Rosalia era proteggere la sua città, esserne avvocata.

Presentare la devozione dei palermitani per Santa Rosalia partendo dalle parole del triunfu vuole essere un omaggio a chi, con tenacia, promuoveva il culto alla Santuzza tessendone le lodi e raccontandone la vita, guadagnandosi il pane cantando e suonando in onore dei Santi: gli Orbi.
Questi particolari cantori, riuniti in confraternita presso Casa Professa, erano strumenti preziosissimi di catechesi per il popolo. Ben lo avevano intuito i Gesuiti che, in una travagliatissima storia, cercarono (e riuscirono, almeno in parte) di averne il controllo. In coppia o accompagnati da un ragazzino, gli Orbi percorrevano Palermo per tutto il corso dell\\\’anno, innalzando lodi ora a questo ora a quel Santo, aspettati dai devoti che preparavano gli altari (tusiellu, tirunfu, artaru, apparatu ecc..) e decoravano le edicole votive.
Per il festino l\\\’attività diventava frenetica già nove giorni prima della festa. Palermo si ricopriva letteralmente di altari, parati, edicole votive improvvisate: I Festinelli,  e da questi luoghi sacralizzati si innalzavano i rosarii, i canti, le lodi, ma si mangiava anche insieme, si suonava e ballava. Immancabili, tra gli altri, erano i babbalucia picchi-pacchiu (lumache), u miluni (anguria), a caponatina (caponata), i favi a cunigghiu, l\\\’acqui tisi (sorbetto), turruni, calia e simenza.

Si montavano anche scenografie come riproduzioni di Monte Pellegrino (famoso quello du chianu du Munti i Pietà). La festa, momento di aggregazione e riconoscimento sociale e civico, sconfinava nei quartieri, irrorava i vicoli, ri-tesseva i rapporti di vicinato, creava comunità.
Palermo, offrendo il grande ex voto vivente che è il festino, si mostrava a se stessa, riconosceva il suo ordinamento sociale, si autoeloggiava sia nel microcosmo del quartiere quanto a livello cittadino. Non è un caso se il senato si impegnava in una solenne passeggiata in carrozza o se ancora oggi si celebra messa al Palazzo delle Aquile e si offre una corona di rose alla Santuzza posta sulla sua facciata. Il momento della festa, della grande festa, era ed è il momento in cui si ricapitola tutto.
Il ricordo del miracolo della liberazione della peste nel 1624 è il pretesto per rifondarsi, riconoscersi, riformularsi annualmente.

Al di là di ogni risemantizzazione e rifunzionalizzazione del festino, l\\\’idea di fondo resta sempre quella. Sebbene siano notevolmente mutate (ma questo anche storicamente accadeva) le modalità della festa, il palermitano sente ancora il festino come una sorta di Capodanno, come il momento topico del proprio iter annuale.
\\\”chi mi cunti i iorna du fistinu?\\\” si diceva quando qualcuno diceva un\\\’ovvietà, conosciuto, amato, invocato. Il festino rappresentava e ancora rappresenta l\\\’anima di Palermo. Non si spiegherebbe altrimenti il clamore suscitato da un carro che non piace o le ovazioni per uno spettacolo ben riuscito.
Se il festino avesse perso il suo mordente sulla città non ci sarebbe tutto ciò. U fistinu è pur sempre Fistinu.

Dicevamo pocanzi che il festino è comunque un ex-voto: una festa istituita in seguito ad un miracolo e \\\”per grazia ricevuta\\\”. È necessario per questo non decontestualizzarlo troppo. Non possiamo capire il festino senza considerare che è solo una parte delle feste dedicate a Santa Rosalia (oltre al 3-4 settembre, vi era una festa di Gennaio e diverse altre feste rionali) e che comunque nasce e si sviluppa in armonia con la festa dell\\\’Immacolata Concezione (con cui condivide alcuni riti e la solennità) alla cui potente intercessione gli stessi testi dei Triunfi tributano il miracolo e, ancor prima, la liberazione della Sicilia dalla dominazione musulmana. Va evidenziato come proprio il festino è da sempre il metro di paragone delle altre feste che fanno a gara per \\\”essiri un fistinu\\\” o \\\”u secunnu fistinu di mpalermu\\\”, senza contare la grande influenza che i riti del festino ebbero nelle celebrazioni di diversi comuni isolani.

Cos\\\’è dunque il festino? È un punto focale dell\\\’anno cerimoniale palermitano e come tale non poteva rinunciare ad essere sottolineato da rilevanti particolari e da fastosità. Non erano tanto le corse dei cavalli e i palii (diffusi in ogni festa di Sicilia) a segnalare la fastosità del festino quanto tre momenti distinti che Pitrè ed altri commentatori riportano come i più significativi: La processione del Carro, l\\\’accensione della Cattedrale e la processione delle Reliquie.
Per motivi di tempo e di spazio dovremo soffermarci solo su questi tre riti e non esplicitarne fino in fondo connessioni e risvolti.

U CARRU
Il carro trionfale nasce come forma di esaltazione della Santa e il suo passaggio, sebbene in un\\\’atmosfera meno rigida, è considerato altrettanto sacro che una processione. Oltre alla statua posta in cima, diversi riquadri e figure inneggiavano alla vita della vergine Rosalia, al miracolo e alla città di Palermo. La preparazione iniziava il 24 Giugno quando il traino si immergeva nell\\\’acqua marina. Giorno 11 Luglio il carro era condotto, da diverse pariglie di buoi, fino a Porta Nuova ma spento.

Già questo passaggio era foriero di festa, Pitrè descrive il gran giubilo che provocava l\\\’acchianata du carru e anche lo stupore che accompagnava, qualche giorno dopo, la sua scinnuta (14 Luglio). In quest\\\’ultima occasione il carro si accendeva (\\\”addumava\\\”) ed era tanto grande, sfarzoso e sfavillante che era detto dai forestieri (viddani o regnicoli) A muntagnedda d\\\’oru.
Potevano precedere il carro (o sfilare in giorni diversi) anche carri minori. Piccoli carri erano inoltre allestiti dai fruttivendoli (fatti di frutta e fichi secchi), dai panettieri (fatti di pane, uno di questi è ancora allestito dalla confraternita dei fornai) e dai dolceri (fatti di zucchero) e facevano bella mostra di sè presso bancarelle e negozietti. In forma di barca o carro era anche la carrettella del siminzaru.
Ci sarebbe da soffermarsi sull\\\’accensione dei fuochi e sullo sparo dei fuochi d\\\’artificio e delle macchine sceniche, ma ci limiteremo a evidenziare che concorrevano, oltre che al diletto del popolo, a fini apotropaici. Gli attuali fuochi alla Marina erano solo una parte delle sonorità pirotecniche che accompagnavano la festa.

A MATRICI ADDUMATA
La cattedrale si suoleva apparare con grande sfarzo e, per il vespro solenne, si accendeva un gran numero di candele. Gli specchietti, le dorature, le stoffe, le carte colorate e tanti altri piccoli strataggemmi ampliavano i giochi di luce creando un\\\’atmosfera solenne e magica. Diversi commentatori ne riportano la magnificenza tra cui l\\\’abate Riccardo de Saint-Non nel 1785. Se oggi è facile immaginare una chiesa illuminata di notte non lo era affatto per i nostri avi che, per questo, vi vedevano un grandioso evento.

Alla Cattedrale così apparata la nobiltà e il senato cittadino arrivava in carrozza, ampliando il senso di solennità e sfarzo.



LA PROCESSIONE
La processione delle Reliquie, giorno 15, era il momento di massimo fasto delle autorità religiose e delle confraternite. Vi prendevano parte tantissimi fercoli di Santi e le urne delle Patrone (portate a spalla dai muratori). L\\\’effetto doveva essere notevole, tanto che il Villabianca ne ricorda la meraviglia. L\\\’ultima vara della lunga teoria di Santi, per tradizione, era quella di San Domenico. Al centro delle file dei vari ordini sfilavano inoltre cerei ed obelischi con le riproduzioni della vita della Santa o passi biblici. Seguiva, ovviamente, la Sacra Urna con le Reliquie di Santa Rosalia. La processione durava parecchie ore e il Cassaro, così come le stradine dei quartieri attraversati, veniva parato a festa ed illuminato, le attuali luminarie sono l\\\’evoluzione elettrica delle così dette \\\”paramiti\\\” ricche di fiammelle. Altari sorgevano ovunque, toselli si sospendevano in aria per chiedere una fermata, la pioggia di petali e carta (già documentata dal Pitrè!) era continua. Quattro altari maggiori erano preparati ai Quattro Canti dalle Nazioni Straniere risiedenti in città.


Abbiamo cercato di raccontare il festino, o parti di esso, rifacendoci al passato. Non tanto per un nostalgico attaccamento ma per tracciare la storia, sebbene a grandi linee, di ciò che oggi accade. Siamo infatti convinti che la dimensione diacronica vada sempre accompagnata alla sincronica, perchè permette la più chiara e lineare lettura di riti, feste, eventi. Avendo iniziato con il ricordo degli Orbi non possiamo non concludere con un omaggio all\\\’anima palermitana, alcune delle giaculatorie \\\”gridate\\\” e in forma responsoriale che accompagnano, oggi come un tempo, la processione dell\\\’Urna il 15 Luglio:

E unn\\\’è divotu cu un lu rici cu mia
VIVA SANTA RUSULIA!
e stu fistinu è fattu pi tia!
VIVA SANTA RUSULIA!
e i malateddi vonnu grazia di tia!
VIVA SANTA RUSULIA!
e a dispettu di l\\\’eresia!
VIVA SANTA RUSULIA!
e avi un annu ca un fa sta via!
VIVA SANTA RUSULIA!
a passu a passu purtamu a tia!
VIVA SANTA RUSULIA!

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